Dall’11 al 14 gennaio al Sanfelicinema

gennaioLocandina italiana Suburbicon

Giovedì 11
Venerdì 12
Sabato 13
Domenica 14

Ore 21.15 sempre,
Domenica anche ore 16.00

Commedia,
USA, 2017
Di George Clooney.
Con Matt Damon, Julianne moore, Noah Jupe.
Durata: 1 ora e 45’.

Clooney dirige sicuro di un cast di bravi attori: divertimento assicurato.

LA CRITICA DEL FILM

L’America benpensante e perbenista scopre il suo idillio a Suburbicon, un pacifico sobborgo anni Cinquanta che sembra il paese delle meraviglie. Le villette sono accoglienti, i giardini curati e il pastore si occupa di tutti i suoi fedeli. Nella prima sequenza, questa tranquilla cittadina viene presentata come il paradiso in terra, con uno spot pubblicitario che invita la platea a trasferirsi senza pensarci due volte. La crisi è una bestia feroce che ancora nessuno conosce e il boom economico tiene pieni i portafogli. L’ossimoro è servito e, appena gli abitanti aprono bocca, gli angeli si trasformano in diavoli. Sono tutti molto religiosi, finché rimangono tra i loro simili di razza bianca ma, quando una famiglia di colore decide di stabilirsi in quel mondo “perfetto”, si scatena il delirio. Sembra di rivedere la Charlottesville delle proteste e dell’intolleranza. Suburbicon è una commedia nera scritta dai fratelli Coen dopo Blood Simple, e portata sul grande schermo da George Clooney, che sfrutta l’occasione per puntare il dito contro l’amministrazione Trump e il dramma del razzismo. Clooney gioca con un’attualità scomoda e la penna dei Coen lo aiuta a mantenere sempre viva l’attenzione. Si ride, a denti stretti, e il rischio è quello di immedesimarsi nei mostri che camminano per strada. Non esiste un’anima pura a cui rivolgersi. Quindi l’umanità è perduta? Il cinema di Clooney risponde con i pesanti attacchi lanciati da Good Night, And Good Luck e Le Idi di Marzo, ma con Suburbicon sceglie l’ottimismo e rischia di scottarsi con qualche predica di troppo. Le risate intelligenti fanno dimenticare qualche pecca di regia e il divertimento è assicurato. Oscar Isaac nei panni dell’investigatore mandato dalle assicurazioni è irresistibile, e Matt Damon regala alcuni siparietti indimenticabili.
Gian Luca Pisacane – www.cinematografo.it

(…) C’è l’idea di dare un’interpretazione dissacrante degli anni Cinquanta che, anche se non nuovissima, funziona e la ricostruzione di Clooney del decennio d’oro della storia americana che è pressoché perfetta (…). Scenografie, costumi, scelte cromatiche e décor sono stupefacenti e lasciano il sospetto che ciò che piaccia di più a Clooney (o comunque ciò con cui si senta maggiormente a suo agio), sia proprio questa costruzione formale. Anche perché una rilettura iconoclasta del mito americano sarebbe potuta emergere già con le poche pennellate metaforiche incluse nella sceneggiatura, mentre premere l’acceleratore sulla questione razziale (…) sembra tutt’altro che necessario. Il personaggio dell’investigatore delle assicurazioni interpretato da un Oscar Isaac che tanto ricorda l’Edward G. Robinson de La fiamma del peccato – per esempio – suggeriva di spingere la riflessione sulla disillusione dell’età dell’oro attraverso le tinte cupe del noir (…) Ma Clooney si ferma un passo prima, non affonda e sembra non arrivare mai al nocciolo, restando intorno al proprio immaginario e senza davvero riuscire a trasformarlo in metafora.
Lorenzo Rossi – www.cineforum.it

Una scena che parrebbe uscire da “A sangue freddo”, il romanzo-reportage di Capote sul quadruplice omicidio della famiglia Clutter nella provincia del Kansas, ma che diventa immediatamente altro quando l’obiettivo si ferma sullo sguardo terrorizzato di Nicky, mentre assiste impotente all’omicidio della madre. Quello sguardo di bambino, e tutti gli altri momenti di questo tipo che punteggiano il film da lì in poi (sguardi di Nicky dal ballatoio, da sotto il letto, da dentro l’armadio), ci dicono subito che anche, sotto la patina di una dark comedy in cui il primo termine pesa più del secondo, l’ultimo lavoro di Clooney è ancora una volta un moral play. Istericamente ossessionata dalla paura di un nemico esterno (possibilmente con la pelle di un altro colore) l’America non si avvede che la violenza più bieca, la minaccia più agghiacciante, è dentro le proprie case, nutrita dall’avidità e dall’invidia. Ma è una cecità tutt’altro che involontaria (vengono eretti dei pali per negare la visione dei Meyers che celano opportunamente anche la vista sull’altro lato del muro di legno), mentre coraggiosamente volontaria dev’essere invece quella dei due ragazzini (“Fai finta che non esistano”), per salvarsi la vita.
www.mymovies.it

 Intervista a George Clooney

(Cinematografo.it / Adnkronos)

 “È un film che volevo fare perché mi piacevano i temi. Mi sembrava un momento appropriato per parlare di muri e minoranze che fanno da capro espiatorio, anche se all’interno di un thriller insolito”.

George Clooney non usa giri di parole per spiegare come mai ha deciso di dirigere un film come Suburbicon che racconta come l’apparente serenità di una comunità periferica degli Stati Uniti di fine anni ’50 nasconda verità inquietanti e violente che rimangono celate perché lo sguardo cade appunto sui ‘capri espiatori’: la prima famiglia di afroamericani che si trasferisce nell’idilliaca comunità e che viene strenuamente attaccata.

“Ho sempre amato l’idea di un omicidio consumato in una città perfetta – sottolinea Clooney – con tutta la gente che guarda nella direzione sbagliata. È la storia di un’epoca e di un luogo dai quali, purtroppo, non ci siamo mai veramente allontanati. In fondo anche adesso Trump parla di ‘rendere grande l’America’ costruendo muri contro le minoranze, proprio come se ne parlava negli anni ’50, quando il modello perfetto era un grande uomo bianco”.

 La sceneggiatura del film, firmata nella sua forma definitiva a quattro mani da Joel & Ethan Coen (da cui attinge l’ironia tragicomica), George Clooney e Grant Heslov, nasce in realtà molti anni fa: “I fratelli Coen firmarono lo script originale di Suburbicon negli anni ottanta. Per una serie di motivi il film non fu mai realizzato e venne accantonato. L’anno scorso, proprio quando eravamo sommersi dai discorsi della campagna elettorale sui muri, io e il mio socio Grant Heslov stavamo lavorando a una storia accaduta a Levittown, in Pennsylvania, nel 1957, ispirata al breve documentario Crisis in Levittown. Chiamai i fratelli Coen per chiedere se potevamo provare a dare un’occhiata al copione per farne un film storico ambientandolo in una città̀ come Levittown. Loro ne furono entusiasti, e noi ci mettemmo subito al lavoro”.

 Protagonisti del film sono l’inquietante padre di famiglia Gardner Lodge (Matt Damon), sua moglie e sua cognata (entrambe interpretate da Julianne Moore) e il figlio dei Gardner, un bambino, eppure l’unico costretto a fare i conti con la realtà di lucida follia della sua famiglia e ad aprirsi all’amicizia con il figlio nero dei nuovi vicini. “Sono convinto che i ragazzi miglioreranno il mondo. Io sono cresciuto negli anni ’60 e ’70 durante il movimento per i diritti civili, nel sud la segregazione stava scomparendo e pensavamo che questi problemi sarebbero scomparsi per sempre e invece non è stato così. Perché diamo ancora la colpa dei nostri problemi alle minoranze, che qualcuno teme ci tolgano dei privilegi”.

Sul protagonista del film e la scelta di Matt Damon per interpretarlo, Clooney spiega: “La terribile e lucida follia di Matt Damon forse è la parte più divertente del film anche perché non si era mai visto in un ruolo così”. Anche Damon dice la sua: “Come mi sono sentito nei panni del cattivo e pazzo? Intanto mi ha tranquillizzato che mi dirigeva un regista bravo. E poi sono consapevole di avere l’aspetto dell’americano medio e questo era funzionale al film. E infatti il mio personaggio può andare in giro con la camicia piena di sangue perché sa che verranno comunque incolpati altri”. Mentre la Moore a proposito del suo doppio ruolo scherza: “George voleva risparmiare dei soldi”. Poi più seria aggiunge: “Mi piaceva indagare come la personalità di una sorella potesse ripercuotersi sull’altra. Una è realizzata ma ferita, l’altra non ha niente, è emarginata, debole. E viene cooptata dal cognato in questa storia”.

 Parlando degli Usa, “in questo momento c’è una rabbia massima, una nube nera che sembra coprire il nostro paese e questo film riflette questo sentimento. Volevamo essere suscitare rabbia e anche qualche risata. Ma io sono ottimista, credo nella gioventù, credo che potremo superare tutti questi problemi, credo nelle istituzioni, credo nella magistratura”, dice Clooney parlando da vero politico. E infatti Matt Damon a precisa domanda sull’eventuale impegno diretto in politica di Clooney lo vede come una benedizione: “Non ci potrebbe essere un presidente degli Stati Uniti migliore di George!”, conclude col sorriso.