maggio
Giovedì 24
Venerdì 25
Sabato 26
Domenica 27
Ore 21.15 sempre,
Domenica anche ore 16.00
Commedia,
Italia 2018
Di Matteo Vicino.
Con Primo Reggiani, Margherita Mannino, Ivano Marescotti,
Durata: 1 ora e 38’.
Quattro giovani attori animano coraggiosamente (e felicemente) quattro diverse storie sentimentali. Una bella cine-sorpresa.
LA CRITICA DEL FILM
«Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro».
Così diceva Nietzsche in La gaia scienza. In Lovers sono quattro i personaggi destinati a riviversi infinite volte, nel film declinati in quattro situazioni che danno origine a quattro storie, diverse eppure indissolubili.
Cerchio esatto in un moto perenne, spirale senza fine né mutamento, il film si fa eco cinematografica dell’eterno ritorno stoico e nietzschiano. Nel suo svolgersi ciclico, sfiora gli estremi di un mondo popolato di esseri meccanici e macchinici, che hanno perso o sono in via di perdere la propria tipicità umana. Ciascuno dei protagonisti – che di nome rimangono uguali ma mutano di essenza – deve vivere (e ri-vivere, suggerisce il finale) le quattro storie per poter compiere (almeno) un giro completo nella ruota delle caratterizzazioni residue di una ormai pseudo- o sub-umanità, in un sistema visto come in continuo ed eterno declino.
Le storie coincidono con quattro diversi stadi di una metamorfosi che per essere completa deve passare per la manipolazione, meccanica o emotiva, da soggetti e da oggetti, facendo leva, a turno, sull’intelletto e sul sentimento (o quel poco che ne resta). Un ventaglio di possibilità che si concretizza solo nelle esuberanze, incarnate dai protagonisti che, a rotazione, si ritrovano vincitori o perdenti, oppressori od oppressi, e che, per volontà e per caso, possono sperimentare, almeno nella metà delle situazioni, vendetta (per volontà) e rivincita (per caso). Che tuttavia non porta nulla a reale compimento, poiché in un universo che si muove a spirale nulla è in evoluzione, e nulla risolvibile.
E poco si rivela autenticamente umano o naturale in questi esseri freddi che vivono di relazioni strumentalizzate, dove il materialismo sfocia nell’utilitarismo, e dove non per caso viene chiamato in causa Heidegger, la cui visione dell’uomo è più che mai concreta e finalistica: nella teoria del filosofo come nel film di Matteo Vicino, l’essere umano è progettato e progettante e il mondo intorno a esso, rapporti interpersonali compresi, si piega a semplice strumento per raggiungere i suoi scopi.
Questa è la logica dell’universo dipinto da Lovers, i cui personaggi sono capaci, impersonificando gli eccessi di un’esistenza quasi apatica, di veicolare una universale propensione all’ego, corporeo e materiale, che fa perdere – e rende inutile – il contatto con le due cose che dovrebbero caratterizzarsi come autenticamente e unicamente antropiche: il sentimento (come amore, affetto, amicizia) e la cultura (come filosofia, letteratura, cinema).
Il risultato è un’operazione di distacco, una presa di distanza, in un continuo avvicinarsi e allontanarsi rispetto al mondo reale e allo spettatore, che è tanto del contenuto quanto della forma, negli estremi del primissimo piano (che letteralmente penetra il personaggio) e dei campi lunghi o totali (in cui lo stesso personaggio si perde, talvolta nascosto da veri e propri ostacoli alla visione).
Solo questo distacco o fredda automazione permette di cogliere criticamente quanto il film vuole trasmettere, coinvolgendo lo spettatore a un grado più alto, spoglio di ogni sentimentalismo e immedesimazione. Così, a un duplice livello, funziona la seconda e principale condanna del film, che si fa inno alla cultura contro i mali dell’ignoranza e della noncuranza, epidemie diffuse in un sistema – la società umana in generale, quella italiana in particolare – che non funziona come dovrebbe. Un sistema in cui, inevitabilmente, quell’unico personaggio della storia che a turno si veste di un’identità più vicina all’umano (tanto nelle proprie potenzialità quanto nei propri limiti) è lo stesso che soccombe, rigettato da un universo che rifiuta il sentimento. «Tutto è matematica», come la ragione. «Pensare troppo, non serve a nulla».
Un universo in cui l’unico modo per sopravvivere, sembra azzardare il film a partire dalla citazione iniziale di Edgar Allan Poe, è quello di abbandonarsi ingenuamente alle sue logiche distorte: «L’ignoranza è una benedizione, ma affinché la benedizione sia reale, l’ignoranza deve essere così profonda da non sospettare neppure di se stessa». Dunque, sopravvivere come?
Carlotta Po – www.cineforum.it