Dal 7 al 10 giugno al Sanfelicinema

giugnoLocandina italiana L'Isola dei Cani

Giovedì 7
Venerdì 8
Sabato 9
Domenica 10

Ore 21.15 sempre,
Sabato anche ore 16.00

Animazione,
Usa 2018.
Di Wes Anderson.

Durata: 1 ora e 41’.

L’autore di “Gran Hotel Budapest” torna (felicemente) al cinema di animazione, raccontando come un ragazzo alla ricerca disperata del suo amato cane riesce nell’impresa aiutato da una  divertente ed efficiente “banda”.

LA CRITICA DEL FILM

Con L’isola dei cani, il pluripremiato regista Wes Anderson, anche sceneggiatore e produttore della pellicola, torna al passo uno, tecnica utilizzata con grande successo già nel 2009, in occasione di Fantastic Mr. Fox. Lo stop motion offre un tipo di rappresentazione che ben si adatta alla poetica di Anderson. Utilizzando questa tecnica il regista americano riesce a dare il meglio di sé grazie a un controllo assoluto su tutti gli elementi che compongono la sua messa in scena, sempre controllata e misurata. L’amore per il particolare emerge in ogni sua inquadratura, come la cura dei dettagli e la calcolata prossemica attoriale. Metafora delle macchinazioni del potere, dall’uso distorto dell’informazione alla diffusione della paura, ma non solo, L’Isola dei cani di Wes Anderson si offre a molteplici piani di lettura. Il futuro distopico che rappresenta può essere interpretato come critica alla scarsa coscienza ecologica e alla modesta empatia umana verso gli animali (vengono in mente l’uso degli animali come cavie e le mattanze di cani in Ucraina per gli Europei di calcio del 2012) ma anche come analisi del comportamento umano, spesso irrazionale e sconsiderato, di fronte a emergenze di varia natura, vere o presunte. Anche se è una pellicola complessa, l’Isola dei cani può essere apprezzata da un pubblico di bambini. La meraviglia e l’incanto delle immagini, la bellezza dei personaggi e degli ambienti sono in grado di colpire tutti, grandi e piccoli.
Mario Bettas Valet – www.giovanigenitori.it

Era inevitabile che la messinscena lineare del cinema di Wes Anderson prima o poi incontrasse il mondo giapponese. Un mondo a livelli orizzontali e verticali, graficamente lineare e geometrico, fatto apposta per essere riproposto attraverso l’estetica del regista americano, che ovviamente non cambia mai e qui torna in tutta la sua riconoscibilissima evidenza: inquadrature frontali, primi piani e campi lunghissimi ricchi di particolari, miniature semoventi, riduzione della realtà a segno grafico… L’isola dei cani, ora che esiste, è in realtà il film che esisteva già. Eppure, l’immaginario giapponese, per quanto avvicinato e riadattato, non viene mai veramente riprodotto. Fin dal prologo, Anderson ricorre all’iconografia pittorica del disegno su carta e dell’illustrazione, alla pittura ottocentesca e poi al teatro nō, al manga e all’anime; ma lo fa lasciando che le immagini del suo film siano arricchite dalle infinite altre immagini del mondo a cui rimandano, e non appiattite sul semplice rimando o la semplice citazione. L’isola dei cani non è un omaggio all’iconografia giapponese. Ben oltre il semplice innamoramento del neofita, è piuttosto la ricerca di una radice comune a due mondi che dialogano per la prima volta, lo scavo oltre la forma immediata e riconoscibile di un segno, un tratto, un disegno. In questo senso, la scelta dell’animazione in stop motion è più giustificata rispetto a Fantastic Mr Fox, perché nell’estrema libertà compositiva che la tecnica comporta Anderson sonda le potenzialità del suo procedimento artistico, ne sfrutta il potenziale creativo per riprodurne paradossi e origini: ad esempio, nei movimenti circolari della macchina da presa che, ripresi da un punto di vista frontale, risultato ironicamente piatti; o nella profondità di campo gestita su più livelli, a partire dalla tipica divisione a pannelli delle abitazioni e delle scenografie giapponesi (e bravo a chi prima di oggi aveva intuito che le case di bambola di Anderson erano anche, o in realtà, delle case di bambù). (…) Come sempre in Anderson, anche in L’isola dei cani la gentilezza del tratto e la carineria dell’insieme (con i soliti primissimi piani, anche canini, che mostrano il massimo dell’ingenuità di un cuore, o i segnali buffi di un mondo dolcemente stupido, dal bubolare di un gufo allo starnuto di un cane con tanto di nuvoletta del fiato trasformata in riccioli di lana…) è accompagnata da improvvise apparizioni di immagini di dolore e violenza fisica. (…) Non è un caso che i momenti a tecnica mista del film, con il disegno animato che si sostituisce alla stop motion, siano filtrati da schermi televisivi (rigorosamente in bianco e nero su apparecchi anni Sessanta) e da schermi di servizio; o che la scelta linguistica di far parlare gli umani in giapponese e i cani in inglese metta sullo stesso piano due universi e li faccia dialogare attraverso il commento e la traduzione simultanea in diretta. Che il cinema di Anderson non sia mai stato diretto e istintivo, che sia troppo di testa e solo per chi accetta di far parte del suo giochino intellettuale, lo si è sempre detto e saputo: ma mai come questa volta l’ennesima ripetizione di una formula fissa ha mostrato la necessità, non di evolversi, ma di operare uno scavo (come in fondo indica l’ultimo movimento di macchina del film…) nella propria identità, provando a smuovere con altre tecniche, altre forme, altre culture e altri immaginari, la propria superficie piacevolmente piatta.
Roberto Manassero – www.cineforum.it

Cane, bambino, stop motion: ci ricorda qualcosa? Ma certo, Frankenweenie. Il primo poetico film d’animazione di Tim Burton, una saga sull’amicizia con protagonisti un nerd bambino e il suo piccolo cagnolino non del tutto morto, né del tutto vivo, Sparky. Quel pitbull ricucito insieme come il Dr Frankenstein è forse, ad oggi, il mostro più dolce della storia del cinema. Anderson aggiunge un capitolo, declina a modo suo, la realtà metaforica di questa complicità tra Canide e Homo sapiens. Quello che per Kindmann Wallace era il suo Gromit, per Charlie Brown il suo Snoopy, per Dorothy del Mago di Oz il terrier Toto, sono i quattro cagnoloni arruffati di Anderson per il piccolo Atari. E Lassie! Da non dimenticare, perché assai presente nel film del cineasta americano. Il collie amico di una Liz Taylor bambina è stato per intere generazioni l’ideale sovrumano di altruismo e  amore disinteressato, la metafora di compassione assoluta.  Un po’ come gli eroi a quattro zampe di Anderson. L’industria dell’intrattenimento dominata da Disney e Pixar sull’antropomorfizazzione (da Bambi a Nemo) ha costruito un impero. Un film come questo di Anderson, invece, è costruito su una storia che potrebbe benissimo essere fatta con gli esseri umani. Se solo l’umanità fosse all’altezza della pietà canina.
Simone Porrovecchio – www.cinematografo.it

L’isola dei cani è il primo film distopico di Wes Anderson, quello in cui parlare di un mondo futuro paradossale è un modo di parlare di quello che viviamo oggi. Certo non è propriamente fantascienza (per quanto molta tecnologia sia coinvolta nella lotta dei cani per tornare alla terraferma), ma quei rifiuti ammassati come avevamo visto in Wall-E, solo in scala ridotta e con un gusto maggiore per lo scarto organico, sono costruzioni sofisticate di design, praticamente l’equivalente degli arredi interni degli altri film di Anderson. Quella che in precedenza era carta da parati sempre in armonia con gli abiti dei personaggi, qui diventa una quantità impressionante di scenografie meravigliose costruite con fondi di bottiglie colorati, ammassi di carta o cumuli di immondizia. È solo uno dei molti dettagli che parlano dell’estrema sofisticazione cui è giunto questo regista che lentamente, di film in film, ha colmato la distanza da marginale autore di nicchia a cineasta mainstream apprezzato da un larghissimo pubblico. L’isola dei cani non è il suo miglior film ma è comunque uno show godibilissimo nella maniera in cui riesce ad usare l’umorismo non per far commedia ma per raccontare di come gli uomini (anche quando sono interpretati da cani) lottino internamente contro la propria natura e stabiliscano rapporti che sono sempre una variazione sul tema di quello paterno.
Gabriele Niola – www.wired.it

Possedere uno stile molto riconoscibile porta inevitabilmente a ripetersi, ad indugiare su ciò che già piace al pubblico e in cui questo riconosce facilmente il proprio piacere. Wes Anderson è oggi il cineasta in assoluto più riconoscibile di tutti, capace di lasciare la sua impronta su ogni elemento della messa in scena, eppure non si ripete. Realizza film superficialmente simili tra loro ma sempre diversi, perché invece che sedersi sul proprio stile lo ha continuamente evoluto e reso più complesso. Di film in film ha declinato il suo gusto in diverse intuizioni formali, invece di proporre sempre le stesse, per raccontare persone assurde ed eccezionali mosse da sentimenti banali come quelli dei bambini. (…) L’Isola Dei Cani è una conferma che proprio la stop motion e la sua particolare maniera di essere ferma e rigida è il campo in cui si esprime meglio. (…) L’Isola Dei Cani è anche il film che più cita l’umorismo classico dei corti animati per la tv Warner o Disney e in questo molto dell’umorismo arriva dall’attribuzione a dei cani delle caratteristiche dei personaggi andersoniani, come la compostezza che non è mai rigidezza morale (l’abbinamento più banale del cinema: chi è flemmatico è anche schematico) o la sofisticazione dei gusti e la ricercatezza delle opinioni. Eppure c’è in questa storia di ribellione, come in fondo sono quasi tutte le sue, un tema sottile e penetrante: l’idea che ci sia in tutti una battaglia per controllare l’istinto tramite la ragione e che qualcuno (il vero protagonista che emerge come tale solo dopo un po’) che nel suo passato non c’è riuscito nonostante sarebbe normale per un cane, rimanga ossessionato dal non riuscire a spiegarsene il perché. L’impossibilità di essere composti, razionali e andersoniani come si vorrebbe per colpa di sentimenti irrazionali che scappano da tutte le parti.
G.N. – www.badtaste.it